Due chiacchiere con l’autrice della mostra “Along The Border”: Chiara Fabbro.
Arianna Collautti ha posto qualche domanda alla fotografa, concentrandosi proprio sul – a noi caro – mezzo fotografico. Buona lettura!
Quando hai cominciato ad approcciarti al mondo della fotografia e perché? Hai sempre fatto foto di tipo documentaristico o è un orientamento emerso negli ultimi anni? Hai indagato altre tematiche in passato?
La mia passione per la fotografia è nata diversi anni fa, con la fotografia di viaggio.
Comprai la prima reflex dopo un viaggio in Marocco nel 2009, dove rimasi ammaliata, oltre che dal paese, dalle possibilità creative offerte dalla macchina di un compagno di viaggio rispetto alla mia compatta.
Nel tempo mi sono resa conto di avere la tendenza, anche quando non ho una macchina fotografica, a scansionare la realtà intorno a me a caccia di scatti mentali.
Succede spesso quando mi trovo in un luogo nuovo e visivamente stimolante, ma mi piace anche cercare la bellezza nell’ordinario.
Il lavoro documentaristico è arrivato, invece, più di recente proprio insieme alla volontà di documentare il tema della migrazione.
Quando e come hai deciso di avvicinarti a questi temi? Le foto presenti in mostra si riferiscono all’arco di tempo 2021-2024, cosa è successo in questi anni? Hai svolto un viaggio nella penisola balcanica alla ricerca di storie, testimonianze da raccontare?
Ho iniziato a interessarmi di migrazione più da vicino nel 2017, facendo volontariato con un’organizzazione che offre supporto ai richiedenti asilo a Londra, dove vivo.
In seguito, sono stata a Calais e a Lesbo con organizzazioni di aiuto umanitario per le persone migranti.
Ho imparato molto da queste esperienze, soprattutto attraverso le storie delle persone che ho avuto la possibilità di incontrare, e ho voluto provare a raccontarle.
Ho iniziato collaborando come fotografa con piccole organizzazioni locali, a Kuala Lumpur, in Malesia, con rifugiati afghani e ad Amman, in Giordania, con una organizzazione che aiuta bambini siriani che soffrono di PTSD (Post-traumatic stress disorder).
Nel 2020 ho iniziato a interessarmi più nello specifico alla rotta balcanica e a inizio 2021 sono partita per la Bosnia-Erzegovina, inizialmente con un incarico per Refugee Rights Europe, un’associazione di advocacy che aveva bisogno di fotografie per un report sul paese.
Mi sono poi fermata un paio di mesi per cercare di approfondire il più possibile e continuare a documentare la situazione e sono tornata nei Balcani a più riprese anche in seguito.
Sappiamo che ogni tua foto celebra storie, storie difficili da raccontare, da comprendere e spesso anche da accettare. Come pensi che la fotografia possa aiutare in questo? C’è qualcosa in particolare che cerchi di rendere tramite le tue foto, qualcosa che pensi la fotografia, a differenza della scrittura o altri media, possa riuscire a trasmettere?
La mia speranza è che il mezzo visivo favorisca l’empatia, aiutando a riconoscersi in persone con storie di vita spesso molto diverse.
Sono affascinata da come possiamo essere così diversi, come individui, per motivi culturali ed esperienze di vita, mentre la natura umana ci rende al tempo stesso così simili.
Credo che la fotografia possa trasmettere questo apparente paradosso in modo più immediato delle parole.
In merito all’ultima domanda, hai mai pensato di scrivere un libro o di colmare con altri mezzi ciò che la sola fotografia non può rendere? Nella mostra hai voluto affiancare alcune foto con citazioni tratte dalle esperienze che ti sono state raccontate, ma le protagoniste rimangono le foto. Hai mai pensato di dare più importanza ai racconti, alle storie o pensi che le fotografie siano sufficienti per trasmettere quello che è il tuo intento?
Al momento non ho in programma di scrivere nulla, ma in futuro potrei pensarci.
Una fotografia può dire tantissimo anche da sola, ma immagini e parole funzionano in simbiosi, non in modo alternativo le une alle altre.
È il motivo per cui ci tenevo, nella mostra, ad avere dei testi che spiegassero un po’ il contesto e soprattutto che raccontassero alcune delle storie, anche attraverso testimonianze dirette.
Sappiamo che spesso il mondo dei media spaventa e non è scontato che persone in un momento così fragile della loro vita accettino di condividere con te la loro storia e di mostrare il loro volto dietro una fotocamera. Hai incontrato persone che si sono opposte, intimidite, alla tua richiesta di fare foto o generalmente ti interfacci solo con coloro che già ti sembrano ben disposti ad aprirsi e mostrarsi?
Le reazioni sono ovviamente variabili, da chi mi ha chiesto esplicitamente di essere ritratto a chi non voleva assolutamente.
Mi è capitato un caso rarissimo di ostilità a Tenerife, dove mi trovavo per documentare la situazione delle persone migranti che arrivano dall’Africa Occidentale.
Alcuni uomini che vivevano in un accampamento di fortuna sulla spiaggia avevano accettato giorni prima di essere ritratti da un fotografo per poi vedere la loro immagine su uno dei giornali locali.
Non so quale fosse stata l’interazione con il fotografo, ma il loro rancore derivava dalla convinzione che si fosse arricchito con quello scatto senza portare alcun vantaggio a loro.
Ho cercato di capire il loro punto di vista e di spiegare il mio, ma non per convincerli a farsi fotografare, perché era chiaro che non avrei scattato alcuna foto.
La mia speranza era di dissipare un po’ dell’amarezza di quell’esperienza, perché credo che quella foto, pur non offrendo nulla a loro personalmente, abbia dato un contributo positivo nel condividere la loro storia andando più in profondità della retorica dell’invasione.
Ovviamente questo non toglie loro il diritto di pensarla diversamente e di non voler più essere fotografati.
In generale, però, sono rimasta io stessa stupita di come la maggior parte delle persone accetti di parlare apertamente con una sconosciuta e di essere fotografata.
In un momento di vulnerabilità si tratta di una questione delicata e preferisco, quando possibile, iniziare dall’interazione umana, parlare, spiegare cosa sto facendo e sentire le storie di chi ho di fronte, mentre la macchina fotografica entra in scena in un secondo momento.
Quando cerco l’interazione con qualcuno non so se quella persona vorrà o meno essere fotografata e faccio del mio meglio perché sia basata su fiducia e rispetto reciproci, cercando di non essere troppo invadente.
In questo credo mi aiutino il fatto di lavorare da sola e forse anche di essere donna, perché mi offrono quasi sempre il privilegio di non essere percepita come una potenziale “minaccia”.
Sono molto grata a chi ha scelto di fidarsi di me e sento una grossa responsabilità nel condividere le loro storie.
Nella mostra presente al PR2 le fotografie sono tutte a colori, colori che più o meno accentuati rispecchiano quelli reali. Abbiamo visto, però, che in alcuni tuoi scatti hai fatto uso anche del bianco e nero, ad esempio. C’è una particolare motivazione dietro a questa scelta?
In questo momento preferisco il senso di realtà dato dalla fotografia a colori, anche nella sua crudezza e complessità.
I colori però possono anche distrarre e non sempre aggiungono qualcosa di significativo, per cui è una scelta che può variare nel tempo in base al tema o allo scatto specifico.
Hai qualche progetto in particolare per il futuro?
Ho diverse cose in mente ma nulla di confermato da condividere.
Al PR2 la mostra si presenta con 33 foto, ma probabilmente questa mostra sarà itinerante e, in spazi più grandi, potrà mostrarsi con più foto. Cosa speri di trasmettere alle persone tramite le tue fotografie e, in particolare, tramite quelle presenti in questa mostra?
Spero di avvicinare al tema della rotta balcanica, ma soprattutto alle vite e alle storie delle persone che ho fotografato.
Hanno lasciato alle spalle guerre, persecuzioni e privazioni e sono alla ricerca di una vita più dignitosa.
Talvolta si semplifica la questione con etichette sulla base di categorie a compartimenti stagni: da un lato i rifugiati considerati legittimi e dall’altro i migranti economici.
La realtà, però, è fatta quasi sempre di sfumature e i motivi che spingono qualcuno a lasciare la propria casa e partire per un viaggio così difficile sono spesso un insieme complesso, non riducibile a questa semplificazione.
La mia speranza è di offrire uno sguardo sulle vite di coloro che arrivano alle porte d’Europa, ma anche di contrastare certe narrazioni semplificate e fuorvianti attraverso frammenti di complessità.
Vi ricordiamo di approfondire la mostra sul nostro sito
https://www.palazzorasponi2.it/blog/along-the-border/
https://www.palazzorasponi2.it/blog/festival-delle-culture-2024/
o sulle nostre pagine social
INSTAGRAM: @pr2spazioespositivo
FACEBOOK: @spazioespositivopr2